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Cronaca

La lettera: "8 marzo? Meno mimose e ipocrisia e più servizi per donne e famiglie"

Passata la 'festa delle donne', una lettrice, mamma fiorentina di tre bimbi, ci scrive: una lettera che mette in luce quanto ancora ci sia da fare. Al netto della retorica

“L’otto marzo è appena passato. Come ogni anno è stato celebrato in vari modi. C’è chi la chiama festa, chi puntualizza che si tratta di una giornata internazionale, chi la identifica come un contentino da dare alle donne e si domanda stizzito perché non ci sia una festa dell’uomo.

Nel mio caso ha coinciso con la difficoltà di lavorare con la mia seconda figlia a giro per casa. Da tre anni, da quando è scoppiata la pandemia, sono una delle tante donne lavoratrici che, dopo avere sperimentato lo smart working durante il lockdown, ha scelto di continuare a lavorare da casa. Ho detto 'scelto', ma non è propriamente una scelta.

Mentre tante donne scendevano in piazza a chiedere diritti e parità, molte altre cercavano un modo per arrivare alla fine della giornata senza farsi licenziare nel disperato tentativo di piazzare i figli da qualche parte. Gli scioperi, si sa, devono creare disagio, ma il più delle volte creano disuguaglianza, e danneggiano i soggetti più fragili della società. Le donne, guarda caso, e in particolar modo quelle che sono madri e lavoratrici.

La scelta dello smart working

A volte mi capita di chiaccherare con dei colleghi, uomini per lo più, che sottolineano come 'loro da casa proprio non potrebbero lavorare. Ma te ti trovi bene, vero?'.

No, io non mi trovo bene. Ma è una necessità. Perché ho scelto, e quella è stata veramente una scelta, di avere tre figli nel giro di quattro anni. E adesso che la maggiore ha sei anni lo smart working è l’unico modo per non dover rinunciare alla mia professione senza venire meno ai miei doveri di caregiver.

In italiano non esiste una parola per “caregiver”, forse perché è una figura nascosta all’interno della società. Non so se ciò che non vogliamo vedere sono le persone che accudiscono il prossimo, o ,addirittura, tutti coloro che necessitano di essere accuditi. E non parlo solo di una cura materiale, che pure è fondamentale, ma anche emotiva. E i bambini necessitano di cure per crescere e fiorire.

Fino a qualche generazione fa il caregiver era la madre di famiglia, che si occupava tanto degli anziani quanto dei piccoli. Non lo faceva da sola, spesso aveva una rete di supporto composta da altre donne, sorelle, cognate, amiche.

Oggi chi è il caregiver? Chi si prende cura oggi di chi non può prendersi cura da sé? Sempre le donne, ma con enormi difficoltà. Perché le donne spesso vogliono o devono lavorare.

Ci sono quelle che vogliono lavorare perché vogliono emanciparsi, essere indipendenti, avere una realizzazione che non sia solo quella domestica. Ma soprattutto perché non vogliono sobbarcarsi del 'rischio di impresa' della famiglia. Sì, perché se una donna non lavora si deve affidare completamente al partner, sia economicamente che in termini di prospettive future. Una donna che non lavora non avrà pensione, tanto per dirne una.

E poi ci sono quelle che devono lavorare. Perché con uno stipendio solo non ce la fanno, perché le spese sono tante, i figli costano e vogliono dare ai propri bambini le possibilità che loro non hanno avuto.

Il doppio stipendio è diventato un’arma a doppio taglio. Da un lato è un bene per la donna che vuole contare solo su se stessa, dall’altro è diventato una necessità da quando gli stipendi sono così bassi. In pratica, il sistema capitalista ha fatto in modo di avere due lavoratori al prezzo di uno. E gli anziani? I bambini? Chi pensa a loro? Vogliamo aiutare le donne a emanciparsi? Aiutiamole e a quel paese le mimose.

Il carico dei 'disagi'

Nella scuola di Firenze che frequenta mia figlia più volte al mese i bambini entrano tre ore dopo a causa di assemblea sindacale. Io, che godo del mio privilegiato smart working, mi adatto senza troppe difficoltà a questi fuori programma.

Ma non tutti godono del mio privilegio. La madre di una compagna di classe di mia figlia è pasticcera, suo marito è muratore. Non sono italiani e non hanno parenti in città. Quando viene affisso il cartello 'si entra alle 11 per assemblea sindacale' la vedo sbiancare. Deve cercare una baby sitter, ma la baby sitter costa e non sempre è disponibile all’ultimo minuto. E allora spesso chiede al suo titolare di poter tenere la bambina con sé. Morale della favola, la bambina perde l’intera giornata di scuola e se ne sta tutto il giorno a guardare sua madre lavorare.

Ho scritto alla preside per avere una supplente per le ore di assemblea sindacale, ma la risposta, sintetica e lapidaria, è stata che supplenti non ce ne sono, e risorse per la scuola nemmeno. Cordiali saluti, arrivederci.

Quando l’ho fatta leggere alla mia amica pasticcera ha scosso la testa sconsolata. 'La manderei alla scuola privata', mi ha confidato, 'ma non ce la facciamo con i soldi'. Non so come andrà a finire, la mia amica sta pensando di tornare al suo paese, dove almeno ha l’aiuto dei familiari. Oppure dovrà smettere di lavorare, ma l’inflazione galoppa e gli stipendi restano al palo.

Lo Stato dov'è?

Parliamo di diritti delle donne, ci lamentiamo che meno del cinquanta per cento ha un impiego, che dopo la nascita di un figlio molte smettono di lavorare. Ma lo Stato dov’é? Dov’è se persino la scuola pubblica, presidio di uguaglianza, sta diventando uno strumento di disuguaglianza? Perché se vogliamo l’emancipazione della donna, una domanda su chi si occuperà di anziani e bambini ce la dobbiamo porre.

E le strade sono due. O alziamo gli stipendi di modo da permettere a uno dei due coniugi, e non per forza alla donna, di non lavorare e al contempo riconosciamo questo lavoro in termini previdenziali, o è lo Stato che si fa caregiver e, in primo luogo attraverso la scuola, assicura cura e presenza.

Scuola pubblica

Ma non la scuola come la conosciamo oggi. La scuola pubblica oggi non è fatta per i bambini, è fatta per assicurare uno stipendio a chi ci lavora. La scuola pubblica che vorrei è completamente diversa. Innanzitutto dovrebbe essere una scuola aperta sempre, senza se e senza ma, al pari di un servizio essenziale come un ospedale. Perché questo è la scuola, una casa della cura e della crescita.

Ma lo so, devo smettere di sognare, rendermi conto che è solo un’utopia. Ora dobbiamo fronteggiare assemblee e scioperi, poi si spalancherà il baratro di tre lunghi mesi di chiusura estiva delle scuole. E così, la pasticcera probabilmente tornerà nel suo paese. Noi perderemo una donna lavoratrice e le sue preziosissime figlie (perché, dimenticavo, in Italia siamo messi malissimo con le nascite).

Io invece continuerò questo benedetto smart working fino a diventare un tutt’uno con la carta da parati del mio minuscolo ufficio domestico. Ma di una cosa sono certa. Nonostante tutto, l’otto marzo continueranno a regalarmi queste ca**o di mimose”.

La lettera che qui sopra avete letto è della nostra lettrice Federica Sazzini, ingegnera energetica con Phd in ingegneria industriale, scrittrice di due romanzi ( L'attesa, editore Libò, 2019, e La canzone più bella, editore Ensemble, 2020) e curatrice di un blog personale.

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