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Il Volumi Zero è un ossimoro. “Non c’è una progettualità chiara”

Intervista esclusiva al presidente degli Ordine degli Architetti di Firenze Mario Perini. L'esperto critica la modalità del Volumi Zero attuata dal sindaco Renzi, nel mirino anche la perequazione volumetrica

“Abbiamo segnalato già in diverse occasioni che il Piano strutturale non può essere illustrato in negativo, quindi volumi zero non significa niente”. Mario Perini, presidente dell’Ordine degli Architetti di Firenze, è sempre stato critico con l’impostazione con cui l’amministrazione di Palazzo Vecchio ha pensato ed illustrato quello che fino a pochi anni fa era chiamato piano regolatore. “Per essere precisi poi non è a zero volumi, ci sono infatti tutti i residui dei piani precedenti”. Questo passaggio il sindaco Renzi lo ha ampiamente spiegato, come per la zona Castello. Quel che è fatto è fatto, i contratti firmati in passato vanno rispettati, altrimenti cause e penali per milioni di euro ricadranno sulle future generazioni fiorentine. Questo in estrema sintesi il sindaco - pensiero. Il presidente Perini su questo non entra, ma continua a picchiare sul fronte del piano: “è un buono slogan, tutto qui; bisogna tuttavia che la politica accetti il fatto che un’operazione complessa debba essere esposta nella sua complessità; pensare che un’iniziativa così importante, articolata e strategica debba essere schiacciata e compressa in uno slogan, in modo che abbia più fruibilità e veicolazione nella popolazione, è estremamente riduttivo. Il piano strutturale ha bisogno di essere declinato nella sua complessità”.

Vuol dire che questa operazione di compressione è una sorta di banalizzazione del tema, anche per l’utenza, l’opinione pubblica, uno slogan efficace svuotato di struttura?
Assolutamente. I cittadini non sono stati debitamente informati della reale composizione di questo piano. Il rischio è che per inseguire uno slogan di facile comprensione non si illustri veramente l’articolazione del progetto, non si entri nel dettaglio strategico dell’operazione. Ogni intervento impattante sull’assetto cittadino va assolutamente declinato ed illustrato. Con questa scelta non accade. Alla fine tutto poggia su un’ideologia meramente negativa, sul solo segno meno, mai su un’ottica programmatica.

SECONDA PARTE: ASILI NIDO, FORTEZZA E LA MANCATA OCCASIONE DI NOVOLI

A proposito della declinazione terminologica, il piano volumi zero per un architetto può essere letto come una contraddizione in termini. Qualcuno alle vostre critiche storce la bocca ed inevitabilmente si parla della difesa del lavoro e degli interessi della categoria.
Questo non ha alcun senso. Intanto preciso che noi parliamo come Ordine degli architetti e non come singoli architetti. A noi ci chiamano architetti tra molte virgolette, offendendoci. l’Ordine degli architetti è un’istituzione che dipende dal Ministero di Grazia e Giustizia, che si occupa, in funzione del suo mandato fondativo e giuridico, di contribuire al bene pubblico. Quindi, punto primo, non stiamo minimamente pensando a questioni ed opportunità di lavoro; punto secondo, il fatto che non si costruisca il nuovo a Firenze non è un grande problema per la stragrande maggioranza degli architetti, perché molti di costoro operano nel restauro. Per un architetto lavorare non significa costruire un edificio nuovo. Paradossalmente ci sono degli interventi di restauro, per esempio i negozi del terziario, nei quali gli architetti lavorano molto di più che con il nuovo. In una città che pulsa economicamente il restauro continua perché l’innovazione è un moto continuo. L’edificio nuovo invece, una volta fatto, rimane immutato per almeno 50 anni.

Andiamo al piano ed alla sua essenza: è veramente possibile tramutare nella modernità il concetto di sviluppo strutturale tralasciando l’aspetto volumetrico, ci sono degli esempi virtuosi nel mondo?
Il concetto volumi zero è un ossimoro. Una città ha necessità assoluta di sviluppo; questo non significa costruire come palazzinari, ma concepire una programmazione di sviluppo fisiologico che risponda a esigenze attuali, contemporanee e contingenti. La preoccupazione che abbiamo, volendo per forza inseguire uno slogan, è che si vada a confondere il fine con i mezzi. Il fine di un piano strutturale non è quello di non occupare in assoluto il suolo; questo discorso vale soprattutto se spostiamo l’accento sulla salvaguardia dell’ambiente. Se riusciamo a concentrare ed organizzare in una città strutture urbanizzanti, consumando suolo, salvaguardiamo anche l’ambiente.

Si spieghi meglio, cosa intende per salvaguardia?
Il problema della città è quello che chiamiamo sprawl (città diffusa, dispersione urbana); gli Stati Uniti sono i capo fila di questa piaga: le superfici a disposizione, esclusa New York, sono enormi, per cui tutte le città si espandono in maniera abnorme. Questo è un problema veramente decisivo. Per questo è necessario pensare che, nella pianificazione di una città con un tessuto consolidato dalle infrastrutture ed antropizzato totalmente, possiamo ricercare aree su cui costruire, salvaguardando allo stesso tempo il verde ed altri spazi ambientali. Prendiamo le Cascine per esempio: il Comune dice che dovranno essere rivalutate; è un’ottima idea, rientra in questo gioco di progettare da una parte e salvaguardare dall’altra. Piccolo inciso: avevamo chiesto che ci venisse data sede nel centro delle Cascine, affinché dessimo un contributo alla riqualificazione dell’area. Ci saremmo stati il giorno e la sera, saremmo stati presenti.

Questa richiesta è andata a buon fine?
No, il Comune ha altri progetti, vedremo cosa farà.

Veniamo all’osso, avete lanciato un allarme sociale sulla perequazione volumetrica.  
Faccio un esempio: il Comune dice e chiede di spostare dei volumi incongrui da zone di pregio in altre parti della città, dove ipoteticamente verrà realizzata edilizia residenziale; questa è la perequazione scelta ed utilizzata a Firenze. Ce ne sono altre, ma questa è quella scelta. Come abbiamo ripetutamente detto nelle osservazioni al piano questa strada non ha alcun significato. E’ un concetto astratto, svuotato di principi fissi. Tutto questo è molto pericoloso, mancano infatti i punti cardine della perequazione. Demandare la definizione dei principi al regolamento urbanistico (l’altra gamba prevista per legge dal sistema normativo) farà sì che tutto questo tema si trasferirà su un piano inclinato che ci trascinerà all’urbanistica contratta. Chi avrà più forza farà scrivere regole che riguardano il proprio caso specifico.

Quindi i poteri forti, all’interno di una contrattazione continua, faranno la fila per bussare alla porta di Palazzo Vecchio.
Questo lo dice lei, io dico che le regole vanno scritte nel momento più distante possibile da quando si incide materialmente sugli interessi reali. Le leggi devono essere astratte, generali, non possono inquadrare un caso specifico. Quando stabiliamo delle regole che muovono interessi economici, più spostiamo il momento di definizione delle stesse vicino al caso concreto più questo cercherà di spingere per soddisfare le proprie esigenze. Questo meccanismo contrasta con l’interesse generale e pubblico. Per questo abbiamo sempre detto che le regole della perequazione, fin dai crediti edilizi, andavano definite subito. Questo non avrebbe dato adito a fraintendimenti.

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