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Angolo dell'avvocato

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A cura di Lucrezia Baldini & Francesco Vignali

Offese sui social network: cosa si rischia?

L’utilizzo di frasi offensive e diffamatorie sui social determina la responsabilità penale degli autori con conseguente obbligo di risarcire il danno prodotto

Il caso di una cliente che ha ottenuto la condanna di una persona che la offendeva pesantemente su Facebook ci porta ad analizzare il caso della diffamazione a mezzo internet. L’avvento dei social network ed il largo uso che oggi ne viene fatto conduce certuni a sentirsi liberi di esprimere il proprio pensiero nei confronti degli altri senza alcun limite.

Il grande errore che questi soggetti compiono è quello di considerare la realtà virtuale come una sorta di “zona franca”, in cui porre in essere ogni tipo di condotta, ritenendo che quello che viene realizzato su internet sia qualcosa di non esistente o non rilevante.

Al contrario, la realtà virtuale deve essere considerata esattamente pari a quella reale sotto il profilo dell’effetto delle offese e/o critiche e delle conseguenze delle proprie azioni su un piano legale.

Anche senza arrivare al drammatico fenomeno degli “haters” (soggetti che si divertono a prendere di mira taluno e criticarlo in maniera assoluta per qualunque cosa questo esprima sui social) rileva penalmente anche ogni condotta consistente nell’offendere e denigrare qualcuno.

La libertà di espressione del pensiero è costituzionalmente tutelata dall’art. 21 della Costituzione.

Tale libertà ha, tuttavia, dei limiti. Infatti, un conto è criticare, altro è offendere.

La critica integra, infatti, una forma di c.d. “scriminante” legale, ossia rende legittima la condotta di chi, nell’ambito di tale libertà, esercita il diritto di dissentire nei confronti di un soggetto che la pensi diversamente.

La critica, però, anche laddove aspra e forte, deve essere pertinente al fatto (non generalista, tanto per fare) e soprattutto continente, vale a dire caratterizzata da toni comunque improntati all’educazione e alla volontà di censurare un fenomeno, non di offendere e basta.

Ovviamente, tutto quello che scade nel personale, offensivo, osceno e volgare esula da tale scriminante ed assume un valore diverso.

Ad esempio, un conto è la recensione negativa scritta nei confronti di un ristorante, che, se redatta con la “normale” educazione, può anche avere dei toni un po’ più forti rientranti nel legittimo diritto di critica, altra è la triste realtà di gruppi chiusi che realizzano il c.d. “stupro virtuale”, mediante l’invio di foto e video di donne, anche prese dalla realtà quotidiana, e scambio di commenti offensivi, osceni e volgari, fino addirittura alla pubblicazione dei contatti delle persone fotografate.

Da un punto di vista legale, l’art. 595 c.p. punisce il delitto di diffamazione, stabilendo che “chiunque, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.

Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.

Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro”.

Ebbene, l’offesa a mezzo social integra quest’ultima ipotesi. La giurisprudenza definisce, in particolare, i social network, come “un servizio di rete sociale, basato su una piattaforma software scritta in vari linguaggi di programmazione, che offre servizi di messaggistica privata ed instaura una trama di relazioni tra più persone all’interno dello stesso sistema” (Corte di Cassazione, sez. V penale, sentenza n. 4873/2017).

Con riferimento alla diffamazione mediante social, una recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass. pen., Sez. I., 2 gennaio 2017, n. 50) ha chiaramente affermato che “la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 terzo comma del codice penale, poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone; l’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità, nel reato di diffamazione, trova, infatti, la sua ratio nell’idoneità del mezzo utilizzato a coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti, ampliando – e aggravando – in tal modo la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa, come si verifica ordinariamente attraverso le bacheche del social network, destinate per comune esperienza ad essere consultate da un numero potenzialmente indeterminato di persone, secondo la logica e la funzione propria dello strumento di comunicazione e condivisione telematica”.

La peculiarità del reato di diffamazione è, infatti, l’offesa dell’altrui reputazione innanzi ad altre persone.

Ovviamente con internet e con i social la cassa di risonanza della lesione alla reputazione è ancora più significativa e, come tale, deve essere perseguita.

Al di là della pena, poi, non bisogna dimenticare il diritto al risarcimento del danno, quanto meno morale, che la persona vittima di diffamazione può chiedere al giudice, in modo da ottenere il giusto ristoro di una lesione gravissima subita al proprio onore, alla propria immagine e alla propria reputazione.

Se poi l’offesa è fatta con condotte ricorrenti e vessatorie, tale ipotesi può integrare anche il più grave reato di stalking di cui all’art. 612-bis c.p..

Dal quadro descritto risulta evidente che l’azione più semplice di tutte, cioè l’esprimere un proprio pensiero o una propria opinione, può racchiudere insidie e conseguenze, anche di natura penale, che troppo spesso vengono ignorate e che, invece, il buon senso e la corretta utilizzazione dei social network dovrebbero aiutare a conoscere ed a tenere ben presenti nell’ambito del comportamento degli utenti.

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