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Cronaca Viali

Sgombero della tendopoli alla Fortezza da Basso: le verità dei rifugiati

I rifugiati raccontano lo sgombero di ieri mattina alla Fortezza da Basso: "Sono entrati con la forza e la violenza, hanno preso e spaccato tutto". Poi ricordano "non siamo criminali, chiediamo solo una casa"

“Sono scappato dalla guerra e mi ritrovo in un'altra guerra, una guerra di pace, senza pallottole” cosi Hassan, ventisettenne somalo riassume gli ultimi quattro anni della sua vita, da quando è sbarcato nelle coste italiane. E ieri non gli è andata meglio, quando alle cinque e trenta del mattino, mentre i primi timidissimi raggi di sole sfioravano il cielo, una quarantina di vigili urbani, qualche agente della polizia in borghese e un gruppo di carabinieri, sono entrati nella “tendopoli” di piazzale Bambine e Bambini di Beslan ed hanno cominciato a sgomberare il presidio di protesta. “Ci hanno preso di soprassalto – confessa un portavoce del movimento– io ero presente, stavo dormendo in tenda. Sono entrati con la forza e con la violenza, hanno preso e spaccato tutto; ci siamo messi in cerchio per difendere quel che potevamo, gli animi si sono surriscaldati e qualcuno di noi è stato strattonato violentemente”.
Eppure i somali, gli eritrei e gli etiopi, che questa mattina ritmavano la parola “libertà” mentre i vigili sgomberavano, tutti riconosciuti rifugiati politici, non se sono andati, sono rimasti lì. Hanno recuperato il possibile ed hanno montato un grande telone verde proprio nel centro della piazza. Al resto hanno pensato i militanti del Movimento di lotta per la casa, del csa nEXt Emerson e della Brigata della solidarietà attiva, che nel pomeriggio hanno ricomprato dodici tende nuove, rimpiazzando quelle distrutte sequestrate la mattina. Nel pomeriggio il campo era di nuovo attivo: un gazebo come cucina con pentole, viveri e stagne di acqua, il grande telone verde, e le tende distribuite per il piazzale.

Rifugiati alla Fortezza

“Io muoio qui o ritorno in Somalia” dice Hassan che poi continua: “in Somalia c’è la guerra civile, si muore, ma qui si muore per il freddo, per la fame, la morte è uguale per tutti”. Hassan in Somalia ha lasciato una moglie e due figli piccoli, un maschio ed una femmina; sa che sono vivi e che sono ancora in Somalia e poco altro. E’ scappato, è fuggito dalla guerra, dalla morte, “ma mi ritrovo qui, in una nuova prigione”. Una prigione che per loro è uno stato intero; infatti, a nessuno di loro sono stati rinnovati i titoli di viaggio e i passaporti non bastano (molte volte non vengono riconosciuti validi). Così, ogni qual volta che provano ad andare in altri paesi europei a cercare quella fortuna che non hanno trovato in Italia, vengono immancabilmente respinti e ricondotti, come previsto dalla Convenzione di Dublino, nel paese in cui per la prima volta sono sbarcati e dove gli è stato conferito lo status di rifugiati. Alla fine di queste andate e ritorno continue, di questo su e giù, di questa giostra per disperati si ritrovano per strada senza un soldo, senza un lavoro e senza un tetto. Qualche mese, qualche quindicina di giorni nelle strutture comunali, dall’Albergo Popolare in giù, poi però ne arrivano di nuovi e gli ospiti devono lasciare il passo; anche tra gli ultimi la rotazione ha le sue leggi, così ritornano per strada, a dormire dove trovano. “Chiediamo una casa, un tetto, senza non me ne andrò” confessa deciso Hassan. “Questi ragazzi chiedono tre cose: – ci dice un portavoce del Movimento di lotta per la casa – uno stabile anche da ristrutturare principalmente a spese loro, la residenza a Firenze e che i titoli di viaggio siano rinnovati”.
Tra le tende non solo uomini e ragazzi, ma anche molte donne e cinque bambine piccole, una di queste, di appena due anni, è arrivata ieri assieme a sua madre direttamente dalla Norvegia. “Questa mattina ci hanno portato via tutto – dice una donna somala – mangiare, scarpe, zaini, documenti, tutto”.  “Mi hanno preso a calci – accusa un ragazzo ancora dolorante con il tallone fasciato – proprio nella ferita di guerra”.

Le ferite di guerra sono un leitmotiv straziante; tutti gli uomini sono segnati da pallottole e ferite da taglio, ma c’è chi come l’aiuto cuoco Mohamed porta sul volto i segni delle fiamme. Un colpo di bazuka colpì la sua abitazione in Somalia, poi l’incendio ed ora quella pelle senza impronte, tutta uguale, troppo liscia. “Sono venuto in Italia nel 2007 – racconta Mohamed, che oltre al volto segnato ha anche i segni di tre pallottole, sulla spalla, su un braccio e sulla mano – dopo aver attraversato l’Etiopia, il Sudan e la Libia. Ho attraversato il Sudan e la Libia in quindici giorni, sopra una Land Rover dove eravamo in sessanta; trenta sono morti nel deserto”. Nella traversata ha dovuto corrompere anche una guardia libica che lo aveva arrestato; per non finire in prigione ha dovuto pagare. Prima di andarsene ci tiene a dire una cosa: “non siamo criminali, chiediamo solo una casa”.
 

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