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Giovedì, 18 Aprile 2024
Cronaca

Perché a Firenze il profiterole si chiama bongo

In tutta Italia è conosciuto come profiterole, ma i fiorentini preferiscono chiamarlo "bongo". Ecco come nasce la parola che indica uno dei dolci più buoni che potete trovare in pasticceria

Un dolce amatissimo dai fiorentini che, spinti dal consueto spirito goliardico, non esitano a definirlo anche con espressioni ben più volgari. Sebbene nato alla corte di Francia, sembra che il profiterole tragga le sue origini dal Rinascimento italiano.

Fu Caterina de' Medici, regina consorte del re francese Enrico II, a portare oltralpe alcune delle più gustose ricette italiane. Oltre alla ben nota salsa besciamella, pare infatti che uno dei suoi cuochi personali, di nome Popelini, nel 1540 creò per la prima volta la pasta per bignè (in francese “choux”), che riscosse un immediato successo, e con essa nacque così la base del dolce profiterole. 

Di etimologia incerta, sembra che la parola derivi dal francese profiter (ovvero guadagnare, approfittare), sebbene indichi una specie di panino "cotto sotto la cenere”. Secondo alcune fonti il termine farebbe riferimento alle bignè che, in base alla ricetta tradizionale, si '”approfittano” del cioccolato, andando a creare quella gustosa montagnetta dolce chiamata “croquembouche”. 

Se vi capita di entrare in una pasticceria tra Firenze e provincia però, ricordatevi di chiedere un bongo, nome che evoca inevitabilmente l’Africa, o meglio lo stereotipo del nome africano. Diffuso e amatissimo in tutta la Toscana, tanto che a Impruneta ne realizzarono uno da Guinness dei Primati con ben 8.000 bignè, il bongo è presente in moltissime pasticcerie cittadine.

Secondo l'Accademia della Crusca, i fiorentini  collegano il curioso nome (che in realtà indicherebbe un mammifero ruminante africano) al colore marrone scuro prodotto dalla coltre di cioccolata che avvolge la composizione di bignè: una sorta di richiamo visivo ad un dolce “nero”.  L'espressione fiorentina però, continua la Crusca, non è molto antica, in quanto presente all'interno di testi piuttosto recenti, quali ad esempio il famoso ricettario di Paolo Petroni, pubblicato per la prima volta solo nel 1974. 

Sempre la Crusca osserva come nel Nòvo dizionario universale della lingua italiana (1884-1890), Policarpo Petrocchi riporta il termine “affricana” (scritto con la doppia “F” secondo la pronuncia fiorentina), indicante una “sorta di pasta collo zabaione dentro, e ricoperta di cioccolata". Un africanismo che, proprio come il fiorentino “bongo”, faceva riferimento a dolci ricoperti di cioccolato. Ancora oggi nella zona del Chianti e del Mugello si preparano i cosiddetti africani, dolcetti cotti in forno che assumono un bel colore nocciola. Secondo De Mauro il termine non corrisponderebbe quindi ad un dolce specifico, ma indicherebbe piuttosto tutte le torte o i pasticcini ricoperti di cioccolato.

In generale quindi il fiorentino “bongo” costituisce un ulteriore accostamento tra la pelle scura degli africani  il cioccolato. Tale associazione, conclude la Crusca, è dovuta al fatto che nel '900 l'Africa entra a far parte dell'immaginario collettivo italiano, grazie anche a elementi pop come la canzone di Nilla Pizzi “Bongo, bongo, bongo” (1947). Non è quindi da escludere che un pasticcere fiorentino, invece di usare il solito termine “affricana” (rigorosamente con du “F”) abbia preferito la parola “bongo”, magari suggeritagli proprio da una canzone alla radio. 

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